Recentemente ho ricevuto una segnalazione da un mio conoscente, malato di reumatismi e tendinite alle spalle, con notevoli difficoltà di deambulazione delle braccia, il quale mi ha confidato che in centro di terapia del dolore, nella nostra Regione, presso il quale si cura gli ha imposto l’effettuazione del tampone nasofaringeo certificato da una struttura privata al fine di poter usufruire delle cure essenziali di cui egli ha bisogno regolarmente a cadenza bimestrale. Ancora più curioso è il fatto che circa un mese prima egli si recò nella stessa struttura per la visita preliminare alla terapia, ma senza alcuna limitazione; se non l’uso della mascherina. Ancora più strano è sapere che persino nel milanese, da fonte certa, in molte strutture pubbliche non si richiede più nemmeno la compilazione del modulo attestante di non avere sintomi o di non essere stato a contatto con nessun positivo. Senza contare il fatto che in nessuna struttura privata regionale si richiede il tampone per poter ricevere una prestazione sanitaria, giacché le paghiamo anche profumatamente. Ebbene, questo strano protocollo, dopo una lunga indagine, è realmente esistente e non uniforme in quanto consente a discrezione delle strutture richiedere o meno il tampone. Questa prassi potrebbe risultare potenzialmente grave in prospettiva ed è necessario porsi delle considerazioni logico-pratiche molto basilari:

  • Perché demandare i tamponi ad appannaggio di un privato e a danno del pubblico?
  • Perché richiedere il tampone al paziente nonostante il personale sanitario si presume essere vaccinato e con l’obbligo dell’uso della mascherina?
  • Perché le strutture private non richiedono mai il tampone in luogo di una prestazione?

Sugli aspetti sanitari lungi da me inoltrarmi in quanto profano, anche se trovo la situazione paradossale giacché la logica ci fa desumere la presenza di un trattamento fortemente differenziato e ingiustificabile tra pubblico e privato, con notevoli vantaggi in capo a quest’ultimo e parallelamente a danno della sanità pubblica per mancati introiti e mancate prestazioni gratuite a favore degli aventi diritto. Infatti, far ricadere il costo del tampone in modo indiscriminato a tutti gli utenti produce lo stesso effetto dell’imposta IVA: un costo lineare, irragionevole e non tenente conto della progressività reddituale (principio costituzionale), con effetti importanti sul portafoglio dei cittadini soprattutto durante questa forte crisi economica nella quale taluni hanno perso il lavoro. In questa fattispecie troviamo un conflitto tra due applicazioni dello stesso principio: diritto ad avere una prestazione sanitaria e tutela della salute collettiva mediante il tampone. Ciò richiederebbe un bilanciamento delle esigenze secondo i canoni della ragionevolezza altrimenti si va a finire nella totale discriminazione. O si diversifica il trattamento, rendendolo gratuito per le fasce deboli oppure non lo si richiede affatto. Le conseguenze di questa prassi scellerata potrebbero essere devastanti in futuro, e se ragioniamo in termini più prospettici e alternativi potrebbe anche essere un pratica persuasiva per indurre e costringere le persone a vaccinarsi, per cui ancora non v’è obbligo espresso ex lege, ritenendo tale possibilità molto più conveniente che spendere 50 euro per un tampone ogniqualvolta venga richiesto, poiché il vaccino diverrebbe un lasciapassare universale. Non è affatto uno scenario inverosimile e tanto distante dalla realtà. Già molti politici, in modo trasversale, hanno manifestato l’idea di applicare il passaporto vaccinale digitale nel nostro Paese, sulla stregua del modello israeliano, quale condizione di accesso per ogni tipo di servizio e luogo pubblico. E, notizia fresca, in Inghilterra si sta pensando seriamente di usare questo passaporto impedendo l’accesso nei luoghi pubblici a chi fosse positivo o non vaccinato. Le implicazioni etiche e di diritto sono molteplici. Sicuramente, a Costituzione - diciamo FORMALMENTE - vigente questa pratica non sarebbe possibile per svariati motivi, tra cui la lesione della libertà di circolazione, di autodeterminazione, nonché la discriminazione indiretta che si creerebbe tra vaccinati e non, negando loro anche la fruizione di prestazioni e diritti essenziali. Effettivamente, questa prassi della sanità potrebbe essere una delle tante tappe di avvicinamento a questo modello che farebbe leva sul nostro stato di bisogno pur di accettare un trattamento che non è obbligatorio nella sostanza, col rischio di creare una nuova apartheid tra vaccinati e non. Né più né meno. Una prassi che fotografa lo stato di una sanità calabrese ( ma anche nazionale) malata e clientelare, commissariata da decenni senza successi e con tanti tagli e disagi.

Basterebbe pensare che negli ultimi dieci anni, a livello nazionale, in media sono stati tagliati 37 miliardi di euro in sanità quale avanzo primario, cioè il 5% del PIL nazionale, con una spesa attuale dell’8% del PIL a fronte del 10% della Germania e del 17% degli Usa. Tradotto, sono anche 100 mila posti letto (in media) tagliati, nello specifico 3 posti letto ogni 1000 abitanti per un totale di 10 medici ogni 1000 abitanti; nonché più della metà dei posti di terapia intensiva, passati da 30 mila a 15 mila scarsi in 10 anni (dati del Fonte Annuario Statistico SSN). Numeri che suscitano solo rabbia e incredulità, ma che devono spingere ad una riflessione anche politica, poiché in questo anno pandemico non è stato implementato nulla in modo considerevole per permettere a più persone di curarsi (dal covid e da altro) senza far collassare gli ospedali e quindi incidendo giocoforza sulle decisioni del CTS in merito all’attribuzione della fascia epidemiologica di riferimento. Tagli che hanno avuto come riflesso maggiori disagi e servizi carenti per noi contribuenti, soprattutto in Calabria. Solo il tempo, come sempre, ci darà le giuste risposte eccetto per chi già le conosce.

Luigi Brigante