Il gruppo del Laboratorio di Microbiologia e Virologia dell’Università
Vita-Salute San Raffaele di Milano, diretto dal professor Massimo Clementi, è
stato coordinato dal professor Nicasio Mancini, che ha condiviso la direzione
dello studio con il professor Ivan Zanoni immunologo della Harvard Medical
School.
Se è noto che le forme gravi di COVID-19 sono caratterizzate da
un’iperproduzione di mediatori immunitari, il ruolo degli interferoni, in
particolare di quelli di tipo III, rimaneva ancora da chiarire e aveva dato, in
lavori precedenti, evidenze discordanti. Da un lato infatti i pazienti con
forme gravi di COVID-19 mostrano risposte interferoniche deficitarie,
dall’altro sappiamo però che una produzione molto elevata e protratta nel tempo
di interferoni è stata descritta in pazienti con esiti clinici infausti. Per
definirne il ruolo nella progressione di COVID-19 i ricercatori hanno quindi
analizzato le modalità e il livello di espressione degli interferoni e dei loro
trascritti nei campioni provenienti dalle alte e basse vie respiratorie di
soggetti infettati da SARS-CoV-2 con diverse forme cliniche di COVID-19.
“Abbiamo rilevato che alti livelli di interferone di tipo III e, in misura minore,
di tipo I, caratterizzano le vie aeree superiori dei pazienti a basso rischio,
con forme di malattia meno gravi e alta carica virale. In altre parole, la
presenza del virus stimola una risposta che funge non solo da campanello
d’allarme per risposte immunitarie successive più raffinate, ma anche per un
efficace contenimento del virus a questo livello. Una riposta meno efficace,
come osservato nei soggetti più anziani che abbiamo studiato, può portare
all’interessamento più massiccio delle basse vie respiratorie, dove gli
interferoni, sebbene presenti, non sono più in grado di controllare l’infezione
e la produzione massiccia di altri mediatori infiammatori. Questi dati – spiega
il professor Mancini – evidenziano ulteriormente come gli interferoni assumano
ruoli opposti in sedi anatomiche diverse lungo il tratto respiratorio: una
produzione efficiente nelle vie aeree superiori può portare a una più rapida
eliminazione del virus e a limitarne la diffusione virale alle vie inferiori”.
“Tuttavia – aggiunge – quando il virus sfugge al controllo immunitario nelle
vie superiori, l’abbondante produzione di interferoni nei polmoni, non solo non
è in grado di limitare più in modo efficace il virus, ma contribuisce alla
tempesta citochinica e al danno tissutale tipico dei pazienti con COVID-19
grave”.
Il professor Clementi aggiunge che “questo lavoro, oltre a fornire alcune
conferme motivate e importanti a quanto si rileva nella pratica clinica con i
pazienti COVID-19 – pazienti giovani con carica virale alta risolvono
efficacemente i sintomi senza interessamento delle basse vie respiratorie –
fornisce un’indicazione fino a pochi anni fa impensabile sull’importanza
dell’immunità aspecifica nel decorso di una malattia virale: indicazione che
andrà approfondita e applicata ulteriormente”.
(ITALPRESS).