Si avvicina la settimana decisiva per
l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.
Da Pertini a Ciampi, passando per
Napolitano fino all’attuale Presidente Mattarella, ma soprattutto con Cossiga,
il ruolo di Capo dello Stato è stato interpretato con rigore, a causa dei
fallimenti e dell’insipienza dei partiti, marcando sempre più una presenza
nella vita politica del Paese, superando talvolta il ruolo di neutralità
rispetto ai poteri costituiti ma pur sempre a garanzia dei dettami
costituzionali. Basti pensare al coinvolgimento degli stessi nelle diatribe
politiche e nella formazione dei vari governi, al punto da indurre molti
costituzionalisti ad affermare senza indugio di essere giunti ad un
semipresidenzialismo de facto.
Queste trasformazioni della prassi
costituzionale sono certamente lo specchio di partiti incapaci, da almeno un
trentennio, di formare classi dirigenti consapevoli ed autorevoli, in grado al
più di dar vita a comitati elettorali. Questa tendenza ha purtroppo aperto la
strada alla personalizzazione della politica e al più esasperato tecnicismo
senza cuore ne anima.
Negli anni, le discussioni
(auspicabili) sulle modifiche degli aspetti endogeni della nostra Repubblica
Parlamentare sono sempre state rinviate per cedere il passo ad altre priorità.
Io credo che oggi, a distanza di oltre 70 anni dall’elezione del primo presidente
della Repubblica italiana, sia necessario discuterne coscientemente, per
indurre un processo di riforme costituzionali atto a migliorare un esistente
apparato istituzionale che necessita di stabilità politica e velocità
nell’azione legislativa, pur mantenendo le ampie garanzie costituzionali dei
pesi e contrappesi.
Pensare ad un sistema
semipresidenziale significa garantire una maggiore partecipazione popolare e un
maggiore equilibrio tra i poteri. Il nostro sistema parlamentare, piaccia o
meno, è ingolfato, ha il fiato corto perché i parlamentari si trovano a dover
dibattere e decidere su importanti macro riforme e, al tempo stesso, su
provvedimenti micro ma che per incidenza sulla vita delle persone dovrebbero
avere maggiore rapidità d’esecuzione. Parlare di semipresidenzialismo significa
parlare di un sistema nel quale:
1-il Presidente della Repubblica è
eletto direttamente dal popolo e ha poteri propri, 2-il Primo Ministro, così
come tutto il governo, viene nominato dal Presidente ma deve ottenere la
fiducia del Parlamento per poter governare.
Il semipresidenzialismo, così come il
presidenzialismo, viene impropriamente accostato a degenerazioni autoritarie
della storia, ignorando l’efficienza e la vitalità di questo sistema. È
evidente come un governo sia più efficiente ed efficace se non più costretto a
far approvare ai due rami del Parlamento i limiti per la caccia stagionale o di
altre tematiche che portano via tempo prezioso ai lavori parlamentari.
Occorrerebbe lasciare il dibattimento e l’approvazione dei macro temi del Paese
alle due Camere (invero meglio se una) e, per il resto, riservare una rapida
approvazioni dei temi micro all’Esecutivo, proprio come accade oltralpe. Sia
chiaro, il Parlamento non è, nella mia concezione, un vecchio pachiderma da
abbattere bensì da migliorare e valorizzare, così come la nostra Costituzione,
notoriamente perfettibile, e dunque soggetta ad una matura discussione che non
bisogna affrontare con un oltranzistico conservatorismo.
Dunque, nel mentre si spera che una
classe politica illuminata abbia la capacità di proporre una organica e
duratura riforma costituzionale, aspettiamo con ansia l’elezione del Presidente
della Repubblica. Dal ‘46 in poi tanto cammino è stato fatto. Ad eleggere
infatti il primo Presidente, nella persona del liberale Enrico De Nicola, ai
vertici dei maggiori partiti vi erano Alcide De Gasperi, Pietro Nenni , Palmiro
Togliatti, Luigi Einaudi e Ugo La Malfa. Oggi il destino della Repubblica è
affidato a Luigi Di Maio, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Enrico Letta, Matteo
Renzi e Silvio Berlusconi. La differenza, ancorché visibile, sta nel fatto che,
un tempo, l’elezione del Capo dello Stato rappresentava l’espressione massima
dell’unità nazionale, figlia di contrapposizioni e tensioni ideali ma che
convergevano nell’interesse generale del Paese. Oggi, a dominare lo scenario è
la bieca logica spartitoria dei giochi
di Palazzo e delle ansie di salvezza personale legate alle prossime elezioni.
Dopo il ritiro di Berlusconi e i diversi nomi usciti per essere bruciati penso
che sia proprio Draghi a vincere la scalata al colle.
Buona domenica
Orlandino