Giada, nome di fantasia, in realtà è una ragazza della Lombardia, una storia tra le tante, una delle poche che ha avuto il coraggio di parlare, di raccontare, in qualche modo di denunciare alla collettività questo tipo di violenza che come vedremo un nome ce l'ha. "Da quando ha scoperto di essere incinta, due giorni dopo il ritardo del ciclo, ho dovuto aspettare più di un mese per poter abortire". Una violenza fisica e psicologica che ha deciso di condividere, in modo da aiutare altre donne che hanno subito la sua stessa esperienza. Giada ha dovuto affrontare un vero e proprio calvario. In ventidue giorni è stata sottoposta a cinque ecografie in cui le hanno fatto sentire più volte il battito, ed è stata obbligata a firmare per la sepoltura del feto: "Altrimenti non mi avrebbero fatto abortire". Grazie a fanpage, è venuta fuori questa voce fuori dal coro ed è giusto condividerla affinché, diventi manifesto di coscienza e consapevolezza.
"Ho scoperto di essere incinta a novembre 2021 dopo un ritardo di soli due giorni. Sono andata immediatamente al consultorio per farmi fare il certificato per l'ivg, ma al suo posto mi hanno fissato un appuntamento per una visita ginecologica e una consulenza psicologica, dicendomi che non potevo rifiutarla. Le interruzioni venivano effettuate solo in un ospedale della mia città e solo con il metodo chirurgico. Ma io non avevo nessuna intenzione di parlare con uno psicologo e, dato che ero nei tempi volevo accedere all'ivg con il metodo farmacologico".
Ecco l'attesa infinita per abortire:
"Quando Giada si è presentata in ospedale, le infermiere l'hanno informata che non le avrebbero fatto il certificato per l'ivg aggiungendo che se dal test risultava incinta da 2/3 settimane, avrebbe dovuto aspettare perché la gravidanza si sarebbe potuta interrompere da sola".
Giada ha chiesto ai medici di farle un'ecografia, in modo da essere sicura della gravidanza. Hanno accettato, ma solo a patto che venisse pagata come prestazione non legata all'aborto. Durante la visita non si è visto l'embrione, e le hanno consigliato di fare le beta (un esame per rilevare l'ormone della gravidanza) due volte per essere certa che stesse andando avanti. Dopo le beta, Giada ha dovuto pagare un'altra visita presso un ginecologo privato, in modo da avere un certificato per accedere all'interruzione. Accertata la gravidanza torna in ospedale. Incorre in un medico il quale asserì di non sentire il battito e quindi ennesimo no all'aborto. Un'altra settimana di attesa. Intanto la gravidanza, non desiderata, procede. Giada torna poi in ospedale, speranzosa di poter finalmente avere il suo appuntamento per l'interruzione, ma anche qui si scontra con un muro di gomma. "Trovo ancora un altro medico, che mi fa un'altra ecografia. 'Quasi 40 anni e non sanno ancora usare gli anticoncezionali', commenta. Aggiungendo "la gravidanza procede benissimo e si sente battito". La invitano a tornare il giorno dopo in ospedale previo appuntamento, causa forza maggiore c'era bisogno del raschiamento. Le viene inoltre detto che se il tampone covid effettuato due giorni prima dell'appuntamento, fosse risultato positivo, non avrebbe potuto abortire.
Tampone negativo, si reca nel reparto di ginecologia per avere tutte le informazioni sul ricovero, e la responsabile le dà un foglio in cui le chiede di firmare per la sepoltura del feto. Nel riquadro c'è in chiaro la scritta "Firma del genitore". "Ho avuto un sussulto. Ho chiesto spiegazioni e mi hanno risposto che per legge è così. Che dovremmo fare, buttarli in pattumiera?'. Ho chiesto dove li seppellivano, e la responsabile mi ha spiegato che il Comune aveva dato loro uno spazio, e con il Centro di aiuto per la vita che si trova fuori il reparto andavano a tumularli. Ho domandato cosa sarebbe successo se mi fossi rifiutata di firmare: mi ha risposto che non mi avrebbero fatto abortire".
Stanca da quasi due mesi di rimpalli, Giada firma per la sepoltura del feto, e la mattina successiva si reca in reparto per procedere con l'ivg. "Ero con altre due ragazze in camera, ci hanno dato una pastiglia. Abbiamo chiesto a cosa servisse, ci hanno risposto 'ma lo sapete cosa siete a fare qui?'. A causa dei forti dolori di pancia abbiamo chiesto un antidolorifico, che ci hanno dato solo dopo un'ora perché avevano altre pazienti da seguire e dovevano fare altre cose. Alle 13 finalmente è arrivato il mio turno, ed è tutto finito. Per poter accedere all'ivg ho passato un mese terribile. Sono stata in ospedale sei volte in 22 giorni, ho fatto cinque ecografie. Sono stata umiliata e giudicata. E sono stata costretta a firmare per una sepoltura che mai avrei voluto ci fosse".
La testimonianza di Giada è stata raccolta da Obiezione Respinta, progetto transfemminista parte della rete nazionale Non una di meno, che nasce con l'intento di mappare l'obiezione di coscienza in Italia. "Quella di far ascoltare il battito del feto come pratica che è stata normalizzata e che viene usata per scoraggiare le donne a interrompere una gravidanza – spiega Eleonora Mizzoni, attivista di Obiezione Respinta – Sono anni che ci arrivano queste testimonianze, la prima risale al 2006".
Denunciare queste violenze non è semplice e non si ha spesso voglia di farlo da sole. Raccontarle queste esperienze serve a riempire lo spazio pubblico con queste storie, che altrimenti rimarrebbero invisibili. L'obiezione è aumentata, il farmacologico continua ad avere livelli bassissimi di accesso, e ci sono regioni intere, come le Marche, dove abortire è impossibile.
Libere di scegliere? Questo è il problema.
Marzo, 13 2023
Manuela Molinaro
Redazione Centro Calabria News